NAPOLI – “Perché quella sfida? Perché quelle pistole? Eri solo un bambino”. Sono solo alcune delle parole scritte da don Maurizio Patriciello nella lettera indirizzata ad Emanuele Tufano, il 15enne ucciso nella notte tra il 23 ed il 24 ottobre in corso Umberto, a Napoli.
Emanuele è rimasto vittima di una sparatoria avvenuta, a quanto pare, tra ragazzini – una ventina – della sua stessa età. Sei al momento gli indagati (due per l’omicidio, altri 4 per possesso di armi), mentre si attende l’autopsia sul corpo del giovane ed il successivo dissequestro per i funerali che potrebbero non svolgersi al rione Sanità.
Ma ecco, di seguito, la lettera di don Patriciello.
“Dimmi, ma che è successo l’altra notte? Perché avete imboccato quella strada, perché quella sfida, perché quell’odio, perché quelle pistole? Ma chi ve le ha date? Manuè, io non ce la faccio a immaginare i tuoi ultimi minuti di vita. Solo, sei morto desolatamente, disperatamente solo, nel cuore della nostra bella Napoli. Te ne sei andato – ti hanno cacciato – senza un bacio, senza una carezza. Sei stramazzato a terra come il più spietato dei camorristi. Mi piace pensare che siano venuti gli angeli a raccogliere il tuo ultimo rantolo. Hai gridato. Hai invocato. Hai sperato che qualcuno venisse a salvarti.
Hai chiamato la tua mamma, vero? Non negare che non ci credo. Sei ritornato il bambino che avresti dovuto – e, forse, voluto – essere, accoccolato al sicuro tra le sue braccia. Perché, Emanuele caro, a 15 anni, eri solo un bambino un po’ cresciuto. Maledetta frenesia di vedervi grandi prima del tempo. Pur senza volerlo, noi – voglio dire, noi mondo degli adulti – vi abbiamo rubato gli anni più belli cui avete diritto, quelli della spensieratezza, della scuola, dei sogni, dei progetti, delle scoperte, delle domande, dei viaggi, del gioco. Il gioco, Emanuè…il gioco. Vi abbiamo catapultati nello spietato agone della vita senza fornirvi gli strumenti per poterla affrontare con serenità. Alpinisti a piedi scalzi. Scultori a mani nude. Ciechi, stiamo diventando ciechi, sordi e presuntuosi. E, adesso, abbiamo la faccia tosta di ergerci a maestri. Non senti? Ognuno dice la sua. Tutti contraddicono tutti. Il guaio è che non abbiamo il coraggio della verità. Arriviamo sempre dopo.
Non siamo stati capaci di educarvi ed eccoci pronti a condannarvi. Abbiamo abdicato al dovere di rimanere svegli, in piedi, sulla torre di guardia, a scrutare l’orizzonte per avvertirvi quando il nemico avanzava; e ci lamentiamo perché siete diventati ribelli e violenti. Facciamo fatica a capirvi, come voi fate fatica a capire noi. Parliamo lingue diverse ma tiriamo a campare. Rassegnati, ci siamo appollaiati sulla collina e dall’alto vi guardiamo come si fa con le bestie rare. Ci sfioriamo, ma non ci conosciamo. Quando le cose non vanno, quando vi armate di coltelli e pistole, quando ci impaurite minacciando di scappare via di casa, solo allora, ci accorgiamo dell’abisso che c’è tra voi e noi.
Ma chi, chi, Emanuele mio, chi avrebbe dovuto farti vivere l’età che avevi? Come sono patetici i vecchi che, a tutti i costi, vogliono apparire giovani; come sono pericolosi i ragazzini quando digrignano i denti e trovano gusto a imitare gli uomini cattivi. Da quando la notizia della tua orribile morte mi ha raggiunto, non faccio che pensare a te. Ti voglio bene. Ti vedo, mentre, terrorizzato, tenti di scappare, di nasconderti dietro il cassonetto dei rifiuti. Sento il tuo cuore battere all’impazzata. Noto che la paura ti ha stravolto il volto. Il volto delicato e tragico di un bambino che ha capito di essere a un passo dalla fine.
A me puoi dirlo: da chi avete appreso questa violenza stupida e assassina? Chi vi ha messo in mano queste armi che vi condannano, e ci condannano, a morte? Dimmi, figlio, chi vi ha fatto da maestro? Tu non sai, ragazzo mio, quanta gioia, per le strade del mondo aspettava solo di essere da te raccolta. Tu non sai quante cose belle, quante emozioni, quanto amore, quanta vita, il buon Dio, aveva preparato per te. La nostra città non può più fare finta di niente. Solo nell’ultimo anno siete stati uccisi tu, Gennaro Raimondino, Giovanbattista Cutolo, Francesco Pio Maimone… Se taceremo ancora, grideranno i fantasmi di Castel Capuano. Quante vite spezzate. Quanta violenza bieca. Quanta illogica ottusità.
E adesso, sono certo, si ripeterà anche per te, la solita “liturgia” dei palloncini e delle magliette bianchi; degli striscioni, dei fiori, degli applausi. E diranno che “sei la stella più bella del firmamento”. Magra consolazione. Che ce ne facciamo di un’altra stella? Noi vogliamo Emanuele. La verità è che tu sei stato ucciso. Capisci? Sei stato ucciso. Barbaramente ucciso. Innocentemente ucciso. Stupidamente ucciso. Nel cuore della notte, sei stato ucciso, quando i ragazzini di 15 anni dovrebbero – devono – stare a letto, o, al massimo, fare tardi a una festa solo se accompagnati da un genitore.
Tu non stavi al tuo posto perché noi non stavamo ai nostri posti. Perché noi non ti abbiamo tutelato. Perché noi ti abbiamo confuso le idee. Perché noi non ti abbiamo insegnato a distinguere il bene dal male; forse, perché dal male, i primi a esserne ammaliati siamo proprio noi. Le guerre le provocano e le combattono gli adulti. I carichi di droga, a Napoli, li fanno giungere gli adulti. I clan della camorra che negli anni hanno falciato sé stessi e il nostro popolo, sono composti e comandati da adulti. La patologica sete di danaro e di potere affligge e distrugge tanti adulti. Le pistole nelle mani dei bambini le hanno messe gli adulti. Folli!
Vi abbiamo contagiati, vi siete ammalati, prima di essere stati vaccinati. E, adesso, cari fratelli e sorelle napoletani, vogliamo fermarci? Vogliamo, davvero, cercare di capire perché questi nostri antichi e moderni quartieri popolari, nonostante gli sforzi di tanta gente di buona volontà, non riescono ancora a decollare? Vogliamo trovare il coraggio di chiamare le cose con il giusto nome? Le varie anime di Napoli vogliono decidersi a fare pace tra loro? Vogliamo spalancare le porte delle mille bellezze nascoste, dei musei, delle chiese, dei monasteri, dei palazzi storici, del teatro San Carlo, della cultura, dell’università, del mondo del lavoro ai ragazzi dei quartieri a rischio? Vogliamo prenderli per mano e accompagnarli in giro per il mondo? Vogliamo metterci insieme – genitori innanzitutto, e preti, e suore, e insegnanti, e amministratori comunali e regionali, e gente dello sport, della musica, dell’arte, della politica – per studiare seriamente la strada da imboccare?
Che la tua morte, Emanuele, non sia vana. Che il tuo nome possa fare da sigillo alla lunga e dolorosa lista dei morti ammazzati come animali feroci per le nostre strade. Riposa in pace, bambino. Ritorna, finalmente, alla tua età. Quindici anni. Quindici anni per sempre”. Maurizio Patriciello.