Gli effetti indiretti della pandemia pesano sulle diagnosi di tumore del polmone in Campania, con un incremento stimato pari al 30% di quelle in fase avanzata. Ogni anno, nella regione, si registrano circa 4.100 nuovi casi (3.000 uomini e 1.100 donne), con il più alto tasso di incidenza fra gli uomini a livello nazionale (112 casi ogni 100mila abitanti). E la pandemia rischia di peggiorare ulteriormente questo quadro. Per aumentare le diagnosi in fase precoce e le possibilità di sopravvivenza, gli esperti chiedono che, come già avviene in altri Paesi, sia introdotto lo screening gratuito con Tac spirale a basso dosaggio per i forti fumatori.
“Già in questi mesi – chiarisce Cesare Gridelli, Direttore Onco-Ematologia Ospedale ‘Moscati’ Avellino – abbiamo potuto osservare un incremento delle diagnosi avanzate di carcinoma al polmone, imputabili al ridotto accesso ospedaliero dei pazienti in trattamento o che accusavano sintomatologia sospetta, per il timore del contagio. Un esito che sarebbe stato possibile evitare in Campania, che, in linea con il Decreto Regionale, non ha mai sospeso la cura del cancro”.
“Nella mia struttura di riferimento, come nelle altre della Regione, è sempre stata garantita la continuità terapeutica – spiega Carlo Curcio, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Chirurgia Toracica presso l’Azienda Ospedaliera dei Colli Monaldi di Napoli – ma la paura ha frenato sia le nuove visite che i controlli per i pazienti con neoplasie localizzate. Il rischio è che le diagnosi di tumore del polmone in fase avanzata registrino un incremento del 30%, con conseguenze negative in termini di prognosi. Dall’altra parte, però, va sottolineato che quest’anno abbiamo registrato un aumento degli interventi chirurgici, per un totale di 638, a fronte dei 610 del 2019. La disponibilità di un maggior numero di accessi nelle sale operatorie, libere per il rinvio degli interventi procrastinabili, ha consentito di smaltire le liste d’attesa, a beneficio dei malati oncologici già candidati a chirurgia. A subire, invece, maggiori danni dalla pandemia sono stati i pazienti che hanno ricevuto la nuova diagnosi di neoplasia polmonare nel periodo da marzo a dicembre 2020. Gli pneumologi sono stati impegnati in prima linea nella gestione dell’emergenza Covid e questo ha ostacolato la valutazione multidisciplinare, essenziale per definire l’approccio terapeutico in una neoplasia molto difficile da trattare come il tumore del polmone. Una situazione che ha registrato un importante miglioramento a partire da gennaio 2021, con l’attività dei Gruppi multidisciplinari, tra cui il GOM polmone Azienda dei Colli, e il GOM polmone Moscati Avellino, di cui faccio parte”.
“È fondamentale – spiega il prof. Gridelli – correre subito ai ripari e dare grande impulso agli screening, tra cui dovrebbe rientrare anche la Tac toracica a basso dosaggio per le persone a rischio, cioè per i forti fumatori over 50. Purtroppo, questo tipo di screening non è ancora previsto in Italia e negli altri Paesi europei, come invece accade per la mammografia, il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci e il Pap test. Lo screening, in un Paese in cui è stato adottato da tempo come gli Stati Uniti, ha dimostrato di essere indispensabile per la diagnosi precoce del carcinoma polmonare non a piccole cellule, una neoplasia che, se identificata in fase precoce può essere operata con possibilità di guarigione e, al terzo stadio non operabile, può avere buoni risultati, grazie all’immunoterapia, come è emerso dagli importanti risultati dello studio di Fase III PACIFIC, presentato recentemente al Congresso della Società americana di oncologia clinica”.
Sono stati illustrati i benefici a lungo termine dell’immunoterapia nel carcinoma del polmone non a piccole cellule localmente avanzato. Nello specifico, si è registrato un tasso di sopravvivenza globale a cinque anni del 42,9% per i pazienti trattati con durvalumab rispetto al 33,4% con nessun trattamento dopo chemio-radioterapia. Dopo il trattamento per un massimo di un anno, il 33,1% dei pazienti trattati con durvalumab non è andato incontro a progressione cinque anni dopo l’arruolamento rispetto al 19% del placebo.