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Bilancio di fine anno / Le classifiche che De Luca non conosce o finge di ignorare

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L’EDITORIALE di ANTONIO ARRICALE – Napoli al primo posto, davanti a Roma e Milano. Segue Caserta al quarto posto davanti a Brescia; quindi Palermo al sesto posto e Salerno al settimo, prima di Bari, Catania e Torino, che chiude la classifica delle top ten, e si trova ad appena un posto avanti a Reggio Calabria, che comunque sta avanti a Padova, Bergamo, Bologna, Venezia, Reggio Emilia, e via a seguire. Ad ogni modo, le cinque province della Campania sono tra le prime 44 posizioni.

Ovviamente, non si tratta della classifica delle città dove si vive meglio, né della classifica della ricchezza redatta ogni fine anno da importanti testate giornalistiche del settore economico, anche se – con riferimento all’imprenditorialità e, in un qualche modo, all’opulenza – qualcosa pure c’entra.  

Certo, c’è da strabuzzare gli occhi vedendo accostate, sulle punte delle prime tre dita della mano, la capitale del Mezzogiorno, Napoli, quella dell’economia, Milano, e la capitale politica, Roma. E fa sicuramente specie vedere ricompresa sulle altre due dita della mano la Leonessa d’Italia e la città della Reggia borbonica.

La classifica di cui si è detto, però, è quella relativa alla stima delle imprese presenti sul territorio e che sono potenzialmente connesse a contesti di criminalità organizzata. In altri termini, è la classifica delle città che presentano – con il rischio infiltrazione – il maggior numero di aziende mafiose.

La fonte della classifica – sgombriamo il campo da possibili equivoci – è del Centro studi della Cgia di Mestre. Come dire, un’associazione del profondo nord, dunque al di sopra di ogni sospetto. La classifica, peraltro, parte da un presupposto inquietante. E, cioè, se considerate come un “unicum”, con 40 miliardi di euro l’anno (l’equivalente di due punti di Pil) le attività ascrivibili a Camorra, Cosa nostra, Ndrangheta, Sacra corona Unita, Mafia nigeriana e organizzazioni criminali provenienti dall’Europa dell’est rappresentano la quarta industria del Paese. Si contendono, cioè, il fatturato con colossi come Eni (93,7 miliardi di euro), Enel (92,9 mld) e Gestore dei Servizi Energetici (55,1 mld). Di più, il giro di affari di queste mafie appare finanche sottostimato, dal momento che non è possibile misurare precisamente i proventi riconducibili all’infiltrazione di queste realtà nell’economia legale.

Da questa classifica si possono dedurre almeno due considerazioni. La prima: le mafie saranno anche un pernicioso fenomeno del Sud, ma è al Nord che trovano il terreno fertile per infiltrarsi e prosperare nell’economia legale. La seconda: il fatto di ritrovarsi in classifica vicino sia Milano che le città più ricche del Settentrione, non significa che il Sud benefici di questa ricchezza. Anzi. Gli effetti delle economie mafiose, infatti, sono diametralmente opposte al di qua del Garigliano. Qui, infatti, succhiano soprattutto linfa vitale dalla spesa pubblica, magari la stessa di cui mena vanto il governatore Vincenzo De Luca nella conferenza stampa di fine anno, e finiscono coll’immiserire e affossare ulteriormente quel poco di tessuto produttivo sano che ancora resiste.

Qualcuno, allora, lo ricordi allo Sceriffo: la differenza non la fa la quantità della spesa, che – come egli dice – da parte della Regione e della sua gestione è stata tanta, ma dalla qualità dell’erogazione dei corrispondenti servizi. Che, come tutti sanno, è stata poca. Anzi, inesistente.

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