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I figli di De Luca sono pezzi del cuore. E i figli degli altri?

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L’editoriale di Antonio Arricale – Il potere logora chi non ce l’ha, sogghignava Giulio Andreotti, inossidabile uomo politico della Prima Repubblica che, forse, ricorderanno soltanto quelli della mia età, non certo della generazione Y o Z, men che meno i cosiddetti nativi digitali.

Ma era una boutade, puro sarcasmo. Infatti, la lunga permanenza al potere di uno stesso uomo – non sono io a dirlo – apre inevitabilmente le porte alla corruzione. A cominciare, dal proprio animo. Per Saratis Thanopulos, studioso raffinato e valente psichiatra di origini greche di stanza a Napoli, invece, il potere esercitato a lungo “fa perdere la dimensione delle cose, ti estranea dalla realtà”. Di più: “Troppo potere finisce per fare ammalare chi lo esercita”.

Ecco, questi sono motivi più che sufficienti – secondo me – per cui Vincenzo De Luca non dovrebbe essere ricandidato alla Regione. E, dunque, per noi elettori, di scongiurare la sua rielezione per la terza volta.

Anche perché, di segnali di macroscopico solipsismo di cui De Luca evidentemente soffre, ormai se ne colgono uno al giorno: sia nella vita pubblica (la pessima gestione dell’ente Regione è sotto gli occhi di tutti) che nella sfera privata. Atteso, peraltro, che l’una e l’altra. nell’uomo politico si sovrappongono per definizione, senza distinzione alcuna.

E a proposito di vita privata: recenti cronache giornalistiche di Salerno ci informano che il secondogenito dei figli di De Luca, Roberto, è ormai avviato a grandi passi alla carriera universitaria. Come il fratello Piero, del resto, docente all’università di Cassino, che gode peraltro anche degli indubbi privilegi – oggettivamente derivatigli dalla potente parentela – che si accompagno allo status di parlamentare (siede, infatti, già per la seconda volta sugli scranni di Montecitorio).

E vengo al punto. Entrambi i gioielli del presidente della Regione (da non confondersi con gli “Heac ornamenta mea” della severa Cornelia, madre dei Gracchi) sono stati avviati alla carriera universitaria in un contesto a dir poco ideale, se non addirittura facilitato, come molti maligni pensano e dicono. Infatti, al concorso di Ricerca (step propedeutico al passaggio a professore associato) sono stati sempre gli unici candidati. Di questi giorni, appunto, è il concorso affrontato dal secondo rampollo di casa De Luca, commercialista, il quale – nella nuova veste – lavorerà al programma Serics, presieduto dal rettore dell’università di Salerno, Vincenzo Loia. (E qui ci sarebbe da aprire un capitolo di come viene ancora esercitato il potere baronale all’interno delle università. Ma, lasciamo perdere).

Mettiamo subito in chiaro una cosa: sia l’onorevole professore Piero, sia il professore in pectore Roberto, hanno un curriculum di tutto rispetto. Non si discute.

E, però, una domanda ce la dobbiamo fare. Come mai l’ascensore sociale per i figli dei potenti di turno è sempre capace di portare ai piani alti, mentre per i figli dei poveri cristi – altrettanto meritevoli quanto i fratelli De Luca – è sempre fermo al piano terra? Quando non porti, nella migliore delle ipotesi, all’estero?

Insomma, penseranno in molti, prendendo a prestito le parole di una canzone di Mario Merola, “facitem’accapì ca ie so ‘gnurante”: se per De Luca i figli sono pezzi di cuore, i nostri figli che sono…?

Becero e demagogico populismo, il mio. Lo ammetto. E, però, se un consiglio posso dare all’onorevole padre, è questo: provi a guarire, presidente, prima che la malattia diventi cronica. Si rivolga, magari, al dottor Thanopulos. Insomma, prenda coraggio e si faccia da parte.

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