“La recente catastrofe sismica della Turchia e della Siria ha mostrato ancora una volta che non è il terremoto a uccidere, ma sono la case. Con la sua magnitudo 7,8 il terremoto è stato fortissimo, ancorché pienamente in linea con le conoscenze attuali: ma nonostante questa potenziale distruttività, accanto agli edifici crollati se ne sono visti tanti ancora in piedi. In alcuni casi il fenomeno è stato ben evidente, soprattutto nelle aree moderne dove gli edifici sono più alti. In un’intervista il Prof. Mustafa Erdik – il decano dell’ingegneria sismica turca, che è un settore disciplinare molto evoluto in quel paese – ha spiegato che le norme antisismiche ci sarebbero, e che dal 2012 il governo centrale ha avviato una severa operazione di demolizione e ricostruzione degli edifici più vulnerabili, gestita in prima persona da funzionari pubblici; ma le norme spesso non vengono rispettate, per faciloneria o per dolo, ovvero corruzione – il cemento armato che abbiamo visto sbriciolato come polvere fa pensare proprio a questo – e la sostituzione di tutti gli edifici vulnerabili richiederà molti decenni”. Lo ha affermato il sismologo Gianluca Valensise, che proprio di recente ha approfondito in modo dettagliato, con la collega Emanuela Guidoboni, quanto è accaduto in Turchia e Siria.
Ecco come stanno, invece le cose in Italia: 72 MLD di euro spesi per il SuperBonus ma solo il 4% sarebbe stato utilizzato per il SismaBonus. “Ma in Italia le cose come stanno? Anche escludendo l’edilizia monumentale, il nostro patrimonio abitativo è in media vetusto, e come tale vulnerabile. Quasi metà delle civili abitazioni sono state edificate prima che le norme antisismiche venissero introdotte ovunque servivano (Dati CRESME) – ha continuato Valensise – e tra gli anni ’30 e gli anni ’50 del secolo scorso alcune importanti città sono state addirittura declassificate, cioè norme appena introdotte sono state cancellate per realizzare un effimero risparmio nei costi di edificazione. In più, come si è visto con i terremoti di San Giuliano di Puglia del 2002, di L’Aquila del 2009, di Amatrice del 2016 e di Ischia del 2017, anche sull’edificato italiano aleggia lo spettro delle malversazioni: lo dicono le sentenze dei processi che hanno seguito i primi tre di questi terremoti, le quali hanno stabilito che la responsabilità di alcuni crolli è stata di costruttori e amministratori, non della eccezionalità dei terremoti.
Per invertire la rotta a fronte di questo quadro non rassicurante nel 2017 il governo ha varato il SismaBonus, poi inglobato nel SuperBonus 110%, un provvedimento-cardine del PNRR. Peccato che dei 72 miliardi finora spesi per il Superbonus (dati MilanoFinanza), solo il 4% sarebbe stato utilizzato per il SismaBonus (dati Centro Studi Consiglio Nazionale Ingegneri), mentre il restante 96% sarebbe stato usato per l’EcoBonus, al punto che il SuperBonus è quasi uscito dal dibattito pubblico. Per di più, la scelta di come spendere questi 3 miliardi circa spesi per il SismaBonus – l’equivalente del costo annuo della ricostruzione dopo i terremoti degli ultimi 55 anni – è stata interamente lasciata ai singoli cittadini, dunque non è stata indirizzata in alcun modo dallo Stato.
Il terremoto turco-siriano dei giorni scorsi è un ennesimo esempio del fatto che le nazioni più sismiche del mondo si dividono in due gruppi: quelle dove ad ogni terremoto si registrano progressi nella risposta dell’edificato e una riduzione del numero delle vittime, e quelli in cui avviene l’opposto, complice l’abnorme e non governata crescita di città vicinissime alle faglie più pericolose, spesso con l’aggravante dell’inosservanza delle leggi e della corruzione. L’Italia, che agli occhi del mondo ha la responsabilità di tenere in vita una porzione consistente del patrimonio storico e culturale di tutta l’umanità, e nonostante vanti ottimi sismologi ed ingegneri sismici, si trova purtroppo sul crinale tra questi due gruppi: il tema sismico sembra entrare nell’agenda della politica sempre e solo “dopo”, quasi mai “prima”. Sprecata nei fatti l’occasione del SismaBonus, i tecnici del settore aspettano con frustrazione e rassegnazione di sapere “a chi toccherà la prossima volta”.
Nel nuovo Codice degli Appalti mancano specifici riferimenti alla compatibilità geologica, geomorfologica e idrogeologica dell’opera da realizzare.
“Oltre ai terremoti, in Italia dal 2007 al 2021, sono morte ben 336 persone per inondazioni e frane. Colpisce, nonostante tutto ciò, che nella stesura del “Nuovo Codice degli appalti”, approvato dal Consiglio dei ministri il 16 dicembre scorso ed ora all’attenzione delle competenti commissioni parlamentari, nell’art. 41 manchino specifici riferimenti alla compatibilità geologica – ha denunciato Michele Orifici, Vice Presidente Nazionale della Società Italiana di Geologia Ambientale – geomorfologica e idrogeologica dell’opera da realizzare. L’assenza di tale riferimento, oltretutto già contenuto nell’art. 23 del vigente “Codice degli appalti” (D. Lgs. 50/2016), da associazione di protezione ambientale ci induce a manifestare forte preoccupazione”.
La realizzazione di un’opera è condizionata dall’ambiente naturale e lo modifica –l’assenza della “compatibilità geologica, geomorfologica e idrogeologica” oltre a non consentire un’adeguata valutazione rispetto alle trasformazioni apportate ai settori oggetto degli interventi pone preoccupanti limiti rispetto alla qualità del progetto causando di conseguenza il sostanziale rischio di ricadute negative sulla sicurezza delle opere e della salvaguardia del territorio. Come SIGEA-APS esprimiamo la forte preoccupazione di alcune semplificazioni della norma sui lavori pubblici contenuta nel “Nuovo” Codice degli appalti che si rischia di penalizzare fortemente il quadro delle conoscenze del territorio nell’ambito del quale vengono inserite le opere”.